Un lunedì mattina come tanti di Chiara Ciani

Firenze, Italia. Un lunedì mattina come tanti. Sono nella mia auto, ferma nel traffico. Mi guardo intorno per distogliere l’attenzione dall’orologio che mi ricorda quanto sono in ritardo. La città è bellissima. Mi chiedo se tutti quegli automobilisti inferociti se ne stiano rendendo conto.

Alla mia destra un signore innervosito parla con l’auricolare del suo Blackberry. Mi guarda, ma in realtà non mi vede affatto. Gli rivolgo un saluto e non posso fare a meno di notare che non ricambia.

Mlali, Tanzania: rumori di donne e bambini mi svegliano dolcemente. Come ogni mattina stanno prendendo l’acqua alla fontanina dietro la guest house dove alloggiamo. Esco fuori dalla stanza per andare alla “toilette” e, mentre riempio il secchio che fungerà da sciacquone, un ragazzetto, che non avevo mai visto prima, mi saluta. Ci metto un po’ a capire che non è un semplice buongiorno; mi chiede letteralmente “come va la mattina?”, “habari za subui”. Ahi ahi, adesso viene il bello: è il momento di mettere in pratica le durissime lezioni di Swahili che la “Bossi” (Anna, così gli operai chiamano amichevolmente il loro boss) ci fa durante le pause pranzo… uno due e tre: “Nzuri sana”, ce l’ho fatta! Mai più sincera di così rispondo “Sto bene!” e forse, davvero, non sono mai stata meglio.

Questo è uno dei tanti lati belli della Tanzania: qui non esiste indifferenza. Che ci si conosca o meno ad ognuno spetta un saluto, diverso a seconda della situazione e, ahimè, della persona. Non c’è voluto molto infatti perché salutassi con un “Ehi come butta?” il medico più ansiano del villaggio.

La mattina inizia così, in questa magnifica terra, al posto di brioche e caffè si fa colazione con Chapati e banane, una grande fioriera funge da bagno, autostrade e auto lasciano il posto a kilometri di terra rossa che percorriamo a piedi per andare a lavoro. Il nostro ufficio? La Savana.

Oggi zappiamo per portare terra argillosa al cantiere che la Bossi porta avanti ogni giorno con i suoi operai. Con questa terra costruiremo mattoni. Al dormitorio ci aspettano Siary, Silvano, Canuti, Isac, Teghemea e Pedro, che interrompono il loro lavoro per salutarci, nel più caloroso dei modi. Prepariamo zappe e picconi, il furgone è carico, ma prima di partire ci fermiamo per qualche “pitcha” con i piccoli della scuola primaria. Una ventina di foto e qualche “un-due-tre-stella” dopo saltiamo tutti nel cassone e partiamo alla volta della savana.

Il viaggio mi sembra fin troppo breve, perchè per tutto il tragitto mi perdo a salutare, a destra e sinistra, grandi e piccini estremamente affascinanti da questo curioso gruppo di “musungo” (così è chiamato l’uomo bianco, poiché rappresenta “colui che viaggia”) e non solo, in tenuta da lavoro, che attraversa le loro case.

Si inizia. Zappa in mano. È la mia prima volta e le picconate sono accompagnate dalle fragorose risate degli operai e di Anna. Presto prendiamo il ritmo e alterniamo il lavoro a momenti di gioco e silenzi, in cui mi fermo ad ammirare e fotografare quel panorama del tutto nuovo e affascinante. Zappare è faticoso ma anche tanto liberatorio e quando arriva il nostro pasto, mi sembra così ricco da fare invidia al più sfarzoso dei banchetti.

Molto Ugali, un pò di riposo e tante risate per pranzo. I ragazzi ci prendono in giro per come, mangiando, ci esercitiamo a salutare nella loro lingua.

Torniamo al cantiere, sono stanca ma anche tanto divertita. Rientrando incontriamo le ragazze della scuola di cucito, che ci salutano. Una di loro, Jacinta, ci ringrazia per quello che stiamo facendo. Guardando i suoi occhi dolci nel dirmi quelle parole mi rendo conto che lei vede in noi, in Anna e nel progetto che porta avanti, il suo futuro. Ho l’impulso di abbracciarla, di spiegarle che non sono io che sto aiutando qualcuno, piuttosto è lei che con la sua accoglienza, il suo calore, l’affetto che lei come tutti al villaggio, ci dimostrano ogni giorno, sta facendo qualcosa per noi. Vorrei dirle che lei e la sua terra stanno cambiando alcuni ingranaggi dentro di me. È come se ogni giorno, l’Africa mi mettesse di fronte a tutti i capisaldi della mia vita: i miei valori, gli ideali in cui pensavo di credere, le mie priorità stanno prendendo una nuova forma, una forma che somiglia molto ad un sorriso.
Tutto questo purtroppo richiederebbe una lezione un po’ più avanzata di Swahili e io per ora sono al primo livello!!! Così, l’abbraccio forte e in quel momento sono certa che mi stia capendo.

Chai e pane per merenda, insieme alle ragazze, e prima che cali il sole siamo di nuovo sulla “via rossa” del ritorno. Lascio che le altre si allontanino un po’ e io mi fermo, mentre osservo le loro figure a contrasto con quel tramonto mozzafiato. Davanti a me si intravedono le fievoli luci del villaggio. Ho la sensazione che tutti si stiano preparando per la notte, mentre il sole sta calando dietro di loro. Immagino già Rafa e Leti intente a prepararci la cena e ad accoglierci nel loro focolare. Vedo la guest house dove i pochi ospiti riscaldano l’acqua per lavarsi. Penso al Barrakuda, l’unico bar di tutta Mlali, che inizia a popolarsi della vita notturna.

Mi guardo intorno cercando di riempire gli occhi di questo spettacolo. Respiro più profondamente che posso. Non sono mai stata così appagata.

Firenze, Italia. Lo stesso lunedì mattina. La signora dietro di me suona il clacson perché vuole che proceda. Guardo l’orologio: 20 minuti di ritardo. Ancora il clacson di altre macchine. Guardando nello specchietto vedo la signora sbraitare. Sorrido.