Karibu, “benvenuto” di Maddalena Marson

Kàribu, “benvenuto”. E’ la prima parola che ho imparato in Africa e la sensazione che mi ha accompagnata lungo tutto il mio viaggio. Karibu sono i sorrisi con cui si viene accolti nelle loro case, in cui la terra su cui si poggiano i piedi appare più morbida del velluto, e un piatto di polenta la cena degna di un re. Karibu è il profumo del fuoco che solletica il naso e che ti invita a rientrare in villaggio per la notte. Il sole si è appena tuffato veloce nella savana incendiando il cielo sopra il villaggio. Ora lascia spazio alle stelle: luminose e tantissime, che sembra impossibile il cielo le possa accogliere tutte, senza lasciarne scivolare nemmeno una sopra di me. Karibu è la luna che mi apre la strada e che mi guida a casa per la cena, illuminando occhi grandi e affamati, che si stringono insieme per condividere il frutto di una dura giornata di lavoro. Karibu è la mano che stringe la mia e mi accompagna lungo la “strada rossa”, che si impolvera e che allunga il suo tragitto, ma a cui non importa, perché stare insieme è la cosa più preziosa. Karibu è la risata fragorosa che scoppia di fronte ai miei buffi tentativi di imparare un po’ di swahili, a gambe incrociate in mezzo alla savana; un albero come riparo dal sole e terra brulla che si perde all’orizzonte confondendosi con il cielo. Karibu sono gli sguardi degli operai a fine giornata, stanchi, ma grati per aver noi preso parte a questo grande progetto che promette loro un futuro, e la possibilità di scegliere come costruirlo. Che garantisce un riscatto a chi la vita non ha fatto sconti e che permette di esprimere le grandi potenzialità, ancora latenti, di questo grande Paese. Karibu è il girotondo con i bimbi davanti alla scuola elementare, e i canti sull’impalcatura intonati al ritmo del martello che batte sui ferri destinati ad armare la muratura; è i passi di danza tra un cumulo di ghiaia e un sacco di cemento, attenti a non pestare i mattoni che asciugano al sole. Karibu è attraversare la savana in motocicletta, a destra i monti e a sinistra una distesa arida di terra e arbusti, ed essere accompagnati in questa corsa mozzafiato da sorrisi sorpresi e divertiti al passaggio di tanti musungu (visi bianchi). Ma quei sorrisi non sapevano che eravamo noi a essere straniti: sospesi tra la leggerezza di sentirci bene e felici, e la sorpresa che questa felicità non dipendesse da niente di “esterno”, ci eravamo ritrovate. Karibu è un braccio teso per invitarti a ballare in discoteca, un tetto di paglia sopra la testa e rattoppi di fango per tenerne su i muri. Ed è accettare l’invito e ballare con loro, consapevole che i tuoi piedi non avranno mai la stessa velocità e il tuo corpo non sarà altrettanto sensuale, e ridere nel vano tentativo di sentire il ritmo come loro per poi rassegnarsi all’idea che il sangue europeo sia davvero diverso da quello africano, Karibu è trovare davanti alla porta della mia stanza le scarpe che ogni sera lasciavo a prendere aria nel piazzale della Guest, e che, puntualmente dimenticavo. Ed è regalarle e ricevere in cambio un regalo ancora più grande: le porte aperte della “sua” casa e l’onore di conoscere la “sua” famiglia. Ho realizzato subito che quella persona mi aveva appena donato tutto ciò che aveva: i suoi affetti. E il suo gesto era stato così dolce e spontaneo da farmi sentire piccola piccola, e da portarmi a vedere che quando si dà, si sta invece ricevendo cento volte tanto. Karibu, infine, è scoprire che il verbo “avere” lì non esiste, e che esso viene sostituito con l’espressione “essere con”. Nessuna mania di possesso, solo la voglia di condividere, confondendo i miei confini con i tuoi. Karibu per me ha tanti nomi, ciascuno legato a ricordi bellissimi. Canuti, Sijari, Tegemea, Pedro, Silvano, Isaac, Rafa, Leti, Noeli, Dai. E Anna.